La Sacra Famiglia Napoli 2016 © photos DE NOVELLISBORDIN 2015
Intervista di Michele Gavazza
Abbiamo intervistato l'artista e performer Romina De Novellis, ecco cosa ci ha raccontato:
HM:
Hai una formazione di alto livello come ballerina e anche lauree in
Sociologia e Antropologia, che peso hanno i tuoi studi nel percorso
come artista performativa?
RDN:
La danza è ormai un’esperienza lontana nel tempo. Chiaramente però
è stata importantissima per poter in seguito lavorare sulla
resistenza fisica, sul gesto essenziale e asciutto, sulla presenza e
sul corpo come materia.
L’antropologia
è il mio terreno di indagine e di ricerca. Parto dagli studi in
antropologia per capire le dinamiche del Mediterraneo e cercare di
tradurle attraverso il mio lavoro.
Il
corpo in antropologia è un argomento centrale per capire le pratiche
e le soluzioni che in alcuni casi hanno permesso alla differenza di
integrarsi nel contesto sociale. Penso che la danza e l’antropologia
possano dialogare in strettissima correlazione e credo che la
performance sia l’essenza di questo incontro.
HM:
I tuoi lavori sono molto fisici, le performances durano anche 12
ore, come ti prepari a livello fisico e mentale?
RDN:
Ho una pratica quotidiana, che viene appunto dalla danza. La
preparazione è totale e completa. Ogni giorno mi dedico al lavoro
intellettuale e fisico. Non si tratta di eseguire degli esercizi o di
svolgere un allenamento quotidiano, si tratta di proiettare la mia
pratica fisica in un contesto di ricerca e di riflessione.
Prendo
tantissima ispirazione dai bambini gravemente autistici a cui da
diversi anni dedico gran parte della mia pedagogia. Grazie alle mie
ricerche in antropologia e alla mia pratica di performer, ho
integrato la differenza nel mio campo d’azione e nei miei studi
quotidiani.
HM:
Hai portato i tuoi lavori in giro per il mondo, rimanendo comunque
molto legata alle tue origini. Quanto conta il luogo nelle tue
performances?
RDN:
Quasi tutti i miei lavori si installano nello spazio metropolitano e
nel contesto urbano. Il Mediterraneo è fonte di ispirazione teorica
e artistica, mi interessa la posizione dell’Italia in un contesto
Occidentale ma con questo affaccio diretto sul Mediterraneo, un
braccio teso verso l’Africa che purtroppo troppe volte è stato
risolto in un’apertura o chiusura dei porti, senza considerare le
dinamiche sociali e demografiche che sono alla base di questi
problemi. Le mie performance, in maniera poetica e estetica,
raccontano questi mondi, testimoniano il tempo presente e danno voce
a chi non ha diritto di parola.
HM:
Come stai trascorrendo la quarantena?
RDN:
Ho dato vita al progetto #chezmaddalena, un’installazione
partecipativa e una performance serale del confinamento. Durante la
quarantena ho proiettato tutte le sere dalla stanza di mia figlia
Maddalena a Parigi, film, video, documentari da tutto il mondo. Ogni
sera interveniva un curatore internazionale che a sua volta proponeva
un paio di artisti, a volte sono stati i ricercatori a proporre le
proiezioni. Durante 52 giorni ho invitato un centinaio di artisti e
curatori internazionali, tutti insieme abbiamo condiviso un’azione
di resistenza nei confronti della crisi e del pochissimo spazio che
l’arte e la cultura occupano in questo periodo di precarietà
certamente fisica, poi economica, ma che sta già diventando sociale.
Una società che vuole curarsi, interviene sulla cultura e
sull’educazione, è soltanto attraverso la crescita della
sensibilità e delle menti delle persone che possiamo farci tutti
carico della crisi. Il mio confinamento e la condivisione nello
spazio pubblico, sulla facciata del palazzo di fronte alla stanza di
mia figlia, ha permesso la condivisione delle riflessioni comuni, la
condivisione delle angosce che il COVID-19 ha creato in noi tutti e
l’importanza delle relazioni che l’arte deve avere con lo
spettatore (i miei vicini di casa) e viceversa. Non può e non deve
esistere un’arte invisibile, ridotta a un link su internet. L’arte
deve continuare ad essere tangibile, deve continuare a sensibilizzare
il pubblico, ad accompagnare il pensiero in prospettive sempre più
profonde e lontane. L’arte non deve subire il confinamento, i
nostri politici dovrebbero fare lo sforzo di risolvere la relazione
tra l’arte come evento, che rende fragile la presenza dello
spettatore in tempi virali, e l’arte come produzione, educazione,
prospettiva, pensiero. Tutti questi elementi, che compongono le
dinamiche artistiche, sopravvivranno a qualsiasi pandemia se
sufficientemente accompagnati e sostenuti, è su queste che si deve
investire. Al momento sia in Francia che in Italia, non mi sembra
siano questi gli obiettivi dei nostri politici, l’indifferenza e la
superficialità nei confronti dei lavoratori dei diversi settori
dell’arte creano un imbarbarimento sociale e un impoverimento delle
culture. In Italia, soprattutto, sono profondamente amareggiata di
sentir parlare in televisione e dagli animatori televisivi di
investire nell’arte e di credere negli artisti. Penso che i
linguaggi della televisione e dell’intrattenimento abbiano altri
disagi in questo momento storico, hanno quindi altri diritti. L’arte
e la cultura sono indipendenti e come tali devono essere trattate in
altre sedi e da altre persone. In Francia questa distinzione è
davvero molto chiara, tale differenziazione non minimizza alcun
percorso e, al contrario, ponendosi in maniera chiara e logica nei
confronti dei diversi linguaggi, evita disparità e incoerenze.
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