sabato 6 giugno 2020

Romina De Novellis - Performance come sintesi tra danza e antropologia.

La Sacra Famiglia Napoli 2016 © photos DE NOVELLISBORDIN 2015


Intervista di Michele Gavazza

Abbiamo intervistato l'artista e performer Romina De Novellis, ecco cosa ci ha raccontato:

HM: Hai una formazione di alto livello come ballerina e anche lauree in Sociologia e Antropologia, che peso hanno i tuoi studi nel percorso come artista performativa?

RDN: La danza è ormai un’esperienza lontana nel tempo. Chiaramente però è stata importantissima per poter in seguito lavorare sulla resistenza fisica, sul gesto essenziale e asciutto, sulla presenza e sul corpo come materia.
L’antropologia è il mio terreno di indagine e di ricerca. Parto dagli studi in antropologia per capire le dinamiche del Mediterraneo e cercare di tradurle attraverso il mio lavoro.
Il corpo in antropologia è un argomento centrale per capire le pratiche e le soluzioni che in alcuni casi hanno permesso alla differenza di integrarsi nel contesto sociale. Penso che la danza e l’antropologia possano dialogare in strettissima correlazione e credo che la performance sia l’essenza di questo incontro.

    HM: I tuoi lavori sono molto fisici, le performances durano anche 12 ore, come ti prepari a livello fisico e mentale?

RDN: Ho una pratica quotidiana, che viene appunto dalla danza. La preparazione è totale e completa. Ogni giorno mi dedico al lavoro intellettuale e fisico. Non si tratta di eseguire degli esercizi o di svolgere un allenamento quotidiano, si tratta di proiettare la mia pratica fisica in un contesto di ricerca e di riflessione.
Prendo tantissima ispirazione dai bambini gravemente autistici a cui da diversi anni dedico gran parte della mia pedagogia. Grazie alle mie ricerche in antropologia e alla mia pratica di performer, ho integrato la differenza nel mio campo d’azione e nei miei studi quotidiani.

    HM: Hai portato i tuoi lavori in giro per il mondo, rimanendo comunque molto legata alle tue origini. Quanto conta il luogo nelle tue performances?
RDN: Quasi tutti i miei lavori si installano nello spazio metropolitano e nel contesto urbano. Il Mediterraneo è fonte di ispirazione teorica e artistica, mi interessa la posizione dell’Italia in un contesto Occidentale ma con questo affaccio diretto sul Mediterraneo, un braccio teso verso l’Africa che purtroppo troppe volte è stato risolto in un’apertura o chiusura dei porti, senza considerare le dinamiche sociali e demografiche che sono alla base di questi problemi. Le mie performance, in maniera poetica e estetica, raccontano questi mondi, testimoniano il tempo presente e danno voce a chi non ha diritto di parola.

    HM: Come stai trascorrendo la quarantena?
RDN: Ho dato vita al progetto #chezmaddalena, un’installazione partecipativa e una performance serale del confinamento. Durante la quarantena ho proiettato tutte le sere dalla stanza di mia figlia Maddalena a Parigi, film, video, documentari da tutto il mondo. Ogni sera interveniva un curatore internazionale che a sua volta proponeva un paio di artisti, a volte sono stati i ricercatori a proporre le proiezioni. Durante 52 giorni ho invitato un centinaio di artisti e curatori internazionali, tutti insieme abbiamo condiviso un’azione di resistenza nei confronti della crisi e del pochissimo spazio che l’arte e la cultura occupano in questo periodo di precarietà certamente fisica, poi economica, ma che sta già diventando sociale. Una società che vuole curarsi, interviene sulla cultura e sull’educazione, è soltanto attraverso la crescita della sensibilità e delle menti delle persone che possiamo farci tutti carico della crisi. Il mio confinamento e la condivisione nello spazio pubblico, sulla facciata del palazzo di fronte alla stanza di mia figlia, ha permesso la condivisione delle riflessioni comuni, la condivisione delle angosce che il COVID-19 ha creato in noi tutti e l’importanza delle relazioni che l’arte deve avere con lo spettatore (i miei vicini di casa) e viceversa. Non può e non deve esistere un’arte invisibile, ridotta a un link su internet. L’arte deve continuare ad essere tangibile, deve continuare a sensibilizzare il pubblico, ad accompagnare il pensiero in prospettive sempre più profonde e lontane. L’arte non deve subire il confinamento, i nostri politici dovrebbero fare lo sforzo di risolvere la relazione tra l’arte come evento, che rende fragile la presenza dello spettatore in tempi virali, e l’arte come produzione, educazione, prospettiva, pensiero. Tutti questi elementi, che compongono le dinamiche artistiche, sopravvivranno a qualsiasi pandemia se sufficientemente accompagnati e sostenuti, è su queste che si deve investire. Al momento sia in Francia che in Italia, non mi sembra siano questi gli obiettivi dei nostri politici, l’indifferenza e la superficialità nei confronti dei lavoratori dei diversi settori dell’arte creano un imbarbarimento sociale e un impoverimento delle culture. In Italia, soprattutto, sono profondamente amareggiata di sentir parlare in televisione e dagli animatori televisivi di investire nell’arte e di credere negli artisti. Penso che i linguaggi della televisione e dell’intrattenimento abbiano altri disagi in questo momento storico, hanno quindi altri diritti. L’arte e la cultura sono indipendenti e come tali devono essere trattate in altre sedi e da altre persone. In Francia questa distinzione è davvero molto chiara, tale differenziazione non minimizza alcun percorso e, al contrario, ponendosi in maniera chiara e logica nei confronti dei diversi linguaggi, evita disparità e incoerenze.

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