giovedì 7 ottobre 2021

Luca Gilli - Il bianco come vuoto generatore


intervista di Michele Gavazza 


Una interessante intervista al fotografo Luca Gilli.

HM: Da zoologo a fotografo, come e quando nasce la tua passione per la fotografia?

LG: Mi sono avvicinato alla fotografia con metodo e progettualità sul finire degli anni ‘80 come pratica di supporto alle ricerche scientifiche che conducevo in natura e in laboratorio. A quell’epoca mi occupavo di ecologia e zoologia all’Università di Parma e le fotografie, se fatte bene, erano uno strumento quanto mai utile. Per essere più precisi, le mie prime serie di scatti risalgono al 1988 e riguardano una piccola area naturalistica che oggi si chiama Riserva Naturale Orientata Fontanili di Corte Valle Re, su cui avevo iniziato una ricerca riguardo al prezioso patrimonio zoologico di questo fragile ambiente residuale di pianura nel comune di Campegine (RE). A posteriori mi sembra di poter dire che questo mio periodo quasi esclusivamente “scientifico /naturalistico” sia stato una valida scuola, un’importante fase di affinamento della mia sensibilità visiva e, soprattutto, di miglioramento tecnico, un perfezionamento tecnico fondato sulla “precisione”.

HM: Il bianco è uno dei protagonisti della tua fotografia, cosa rappresenta per te?

LG: Il bianco è tabula rasa, è vuoto generatore, è, per così dire, spazio di ricomposizione tra l’essere e la memoria, penso ad esempio allo yohaku di Lee Ufan, ai White Painting di Robert Rauschenberg, che John Cage definì in modo perfetto come “schermi ipersensibili”, e, ancora, ai dipinti di Robert Ryman. Il bianco è anche luce, che è madre in fotografia. E la luce, per sua stessa natura, è mutevole e ambigua come la vita, è vita, è conoscenza, è rivelazione, è il tramite principale delle nostre interazioni con il mondo. Far luce significa anche avere il coraggio di vedere, di entrare in relazione, di mettere e mettersi in discussione, insomma, avere il coraggio di esporsi, di penetrare sempre un po’ più avanti nell’animo umano, nei luoghi e nelle situazioni; significa essere predisposti a lasciarsi sorprendere, a sporgersi oltre la soglia della propria consuetudine, a perdersi nell’alterità e nelle sue relazioni con noi stessi. Credo che per molti aspetti la luce possa essere addirittura più misteriosa e profonda del buio poiché rivela e nel rivelare può restituire parte dei loro misteri alle cose e ai luoghi, può risvegliare in noi quella trascendenza che ci caratterizza e che purtroppo oggi mi sembra abbastanza sopita e mortificata. È fin troppo facile aggiungere che la luce comprende anche l’ombra, ne è all’origine. Come ha scritto Luca Doninelli nel bellissimo recente testo, ancora inedito, dedicato al mio nuovo progetto “Incognita” che esporrò in anteprima dal 7-10 ottobre al MIA (Milan Image Art Fair) di Milano, “l'ombra (del destino, della morte, del nulla oppure di Dio) non è quella che cade sotto l'obiettivo ma quella che l'artista trattiene nel silenzio, mentre meticolosamente ordina i suoi oggetti, i suoi spazi per poi ritrarli con umile fedeltà.”

Per me il bianco è anche strettamente legato al mistero del vuoto e della leggerezza, aspetti/fenomeni che sono in qualche modo altri ingredienti fondamentali della mia fotografia. Come ho già detto in diverse altre occasioni, quella che pratico fotograficamente, o che credo di praticare, si manifesta come una sorta di rarefazione onirica, come una specie di trasfigurazione “precisa” (anche se può sembrare una contraddizione in termini) che parte esattamente da quella che chiamiamo realtà, senza sapere bene di cosa stiamo parlando, e rispettandola la prende per mano per quello che è per accompagnarla lentamente nel territorio del limite, di possibilità altre.

Spesso immagino di essere immerso in una specie di densa atmosfera ossidativa che fa lievitare i miei soggetti e sospende ogni “giudizio” come continua ricerca di libertà e di quell’insondabile che abita luoghi, cose e persone. 

Tra l’altro, in questo ormai piuttosto lungo cammino mi accompagnano fin dagli inizi, come una specie di mantra, alcune celebri frasi fondamentali, almeno per me, di grandi autori, come ad esempio quella di Italo Calvino, tratta delle Lezioni americane, che dice “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”.

HM: Da cosa trai ispirazione?

LG: L’ispirazione e le sue fonti restano un bel mistero. Come dico sempre ogni progetto, ogni fotografia è la sintesi di tanti aspetti: progettuali, tecnici e culturali, reali e irreali, personali e ambientali, consci e inconsci, razionali ed emozionali, gestibili e ingestibili. Un bel guazzabuglio di fattori che, di volta in volta, agiscono e reagiscono tra loro per poi condensare nelle immagini. Oltre alla progettualità e allo studio, sempre fondamentali nella mia pratica fotografica, probabilmente quello che mi continua a muovere, lo ripeto spesso, è anche la ricerca, quasi certamente utopica, di quell’energia ultrasottile che, assimilati studio e consuetudine, concetti e significati, si libera quando un qualcosa tocca un suo punto estremo e lì abbandona tutto per essere soltanto quello che è. Voglio credere che da lì, oltre quella soglia, ci si possa incamminare verso nuovi orizzonti, nuove possibilità, nuove prospettive. Così come credo che i particolari, di cui sono fatte la realtà e la nostra vita, contengano sempre l’universale se li s’interroga con onestà intellettuale e li si apre al mondo. 

Le mie ricerche fotografiche sono comunque anche delle avventure gratificanti, delle intense, almeno per me, esplorazioni interiori ed esteriori. Non di rado vado dove mi porta la vita con le sue circostanze e i suoi incontri più o meno casuali. A volte i progetti prendono spunto da committenze. Comunque sia, la mia attenzione è rivolta principalmente all’ordinario più che allo straordinario, seppur con delle evidenti eccezioni. Siamo fatti così, dove non c’è un po’ di contraddizione non credo ci sia vita vera ! Fortunatamente esiste sempre uno scarto fertile e spesso imprevedibile tra l’idea, il progetto, e la sua realizzazione.

Per finire, aggiungo che nel mio agire fotografico c’è anche un intento per così dire ecologico, di resistenza attiva all’indifferenza e all’omologazione, alla globalizzazione del pensiero e della visione, un bisogno profondo di prendersi cura dello sguardo e della realtà che ci circonda per accogliere e custodire l’intensità e la memoria delle esperienze, delle relazioni e della bellezza in ogni sua più piccola declinazione. E’ urgente riscoprire una tensione etica, ancor prima che estetica, verso la sostenibilità della semplicità, verso l’importanza del segno meno, senza peraltro mortificare e appiattire la forma in modo solo pretestuoso e manieristico. Probabilmente è in questa direzione che si possono anche mobilitare alcune di quelle risorse individuali e collettive che, a mio parere, rappresentano un primo necessario presupposto per iniziare a dipanare l’aggrovigliata matassa di quella complessità traboccante di eccessi, contraddizioni, problemi e ingiustizie in cui ci troviamo immersi e che ci affligge.

HM: Cosa vorresti riuscire a trasmettere a chi guarda le tue fotografie?

LG: Almeno in parte credo di aver già risposto a questa tua domanda. In ogni caso, posso aggiungere che quando penso alle mie foto le immagino come semplici inneschi per accompagnare me stesso e chi osserva appena oltre la soglia degli schemi precostituiti spostando l’attenzione e il pensiero dalle cose alle relazioni tra le cose, così da portare a considerare oggetti, spazi e momenti come nodi di fenomeni. Tutto ciò proprio a partire dalla loro immobile presenza. Per loro stessa natura e specificità le fotografie sono infatti delle “grandi” pause e ci aiutano a fare pausa. Pause che, appunto, possono contenere e generare fertili movimenti del pensiero e delle emozioni, che possono andare oltre il loro corpo finito per aprire visioni e riflessioni sui processi che le hanno generate e su di noi che le guardiamo. Pause, talvolta sfuggenti e imprendibili, che per essere avvicinate, accolte, richiedono comunque tempo, pazienza e intimità, che hanno bisogno di cura e di una reale predisposizione all’ascolto, al mettersi in gioco senza fretta, al lasciarsi coinvolgere. Un esercizio fondamentale da ripetere spesso, e lo dico prima di tutto per me stesso, visto che purtroppo stiamo diventando sempre più allergici a tutto ciò che richiede più tempo, attenzione e impegno dei pochi secondi tra due clic sul mouse.

Qualcuno, se ricordo bene Gilles Deleuze, ha detto che il problema non è di trovare un modo perché la gente si esprima: lo fa fin troppo. Si tratta piuttosto di procurare loro degli interstizi di solitudine e silenzio in cui possano trovare finalmente qualcosa di vero da dire. Ecco vorrei che la mia pratica fotografica e le foto che ne derivano avessero qualcosa in comune con questo tipo d’interstizi e di verità, anzitutto per me stesso e poi per gli altri. Ben consapevole che fotografo non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo, dalla testa ai piedi, per riprendere quello che Lea Vergine diceva della scrittura, e ben consapevole, come ha detto qualcun altro, che nella fotografia, come nel teatro, tutto è finto, ma niente è falso.






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